mercoledì 30 luglio 2014

Un anno fa

Brusco risveglio la realtà
in un freddo gennaio morivo anch'io
quella carezza sull'anima... era Dio...
fine dei giochi impossibili
vivere i giorni rincorrerli
quelle ferite visibili ora bruciano sì!
io che sciolgo una preghiera
vera e fiera più di me
folle nell'inseguire una carriera
avrei dovuto sedermi accanto a te... di più
sembra un miracolo crescere
essere più consapevole
quanto coraggio mi hai dato a dirmi no...
stelle sopra il mio sipario
un delirio una bugia
l'amore assente da quel calendario e intanto il male ti portava via...
padre
solo poche parole
ma la musica che ascolterai
ti somiglia lo sai, è come sei
viva e lucente...
fede
vieni qui ho ancora sete
dei suoi occhi della sua allegria...
e meno male che sogno
posso incontrarti così
perché è di te che ho più bisogno...
cuore diamante: vita mia!
troppe emozioni che mancano
troppe occasioni che sfumano
dialoghi muti che uccidono senza pietà
tu sulla porta mille anni fa
pronto a raccogliere i cocci miei
a consolarmi... sei unico papà...
sono qui e il mondo è fuori
te lo devo sono qui
vado farneticando di amori amari
sofferenze e assenze... di chi resta di chi va...
padre
così tanto distante
ma che figlio bizzarro che hai
ti somiglia lo sai...
perché sei
anima grande...
grande
da stupire la gente
velenosa e insidiosa se mai...
che se hanno un figlio a colori
lottano contro di lui
per appiattirgli i pensieri
pane e superficialità
all'alba dei miei ricordi
sei qui al mio fianco... ci sei!
più le incertezze o gli sbagli
spero che mi perdonerai...
era gennaio su quell'addio
non ebbe successo il destino mio
pochi paganti e un applauso: quello tuo!

Anima Grande, Renato Zero (La curva dell’angelo)



… e poi a maggio ho fatto anche un corso, sì, lo so che starai pensando ma non la finisci con quei libri? sai però che non ne posso fare a meno. Anzi, già che ci sono ti racconto cosa abbiamo fatto l’ultimo giorno del corso, quando ho pensato a te.
La nostra prof, una tosta, in gamba, ti sarebbe piaciuta, ci ha letto un testo … un bel testo, parole che mi hanno fatto riflettere. Te lo riassumo.




Un albero felice di essere al mondo cresceva contento guardando verso il sole, ma così facendo crebbe storto, questo era quello che voleva, era soddisfatto e non gli importava di essere storto perché era felice. Il giardiniere la pensava diversamente e perciò era sempre lì a raddrizzarlo, mentre il sole si allontanava sempre di più da quei rami recisi. Presto il povero albero comprese cosa dovesse fare per rendere felici il giardiniere e sua moglie, quindi rinunciò a se stesso e cercò di assecondarli. Purtroppo niente andava bene: una volta troppo alto, una volta troppo largo e di nuovo zac un taglio netto e i desideri del giardiniere e di sua moglie diventavano legge.

E la moglie approvò: “Non possiamo permetterlo. Dobbiamo potarlo”.
Questa volta l'albero non poté piangere. Non aveva più lacrime. Smise di crescere. La vita non gli dava più nessuna gioia. Possibile che per essere amato doveva rinunciare a se stesso? Cercò di consolarsi dicendo: “Almeno sono amato”. Ma, anche se  potato così piaceva al giardiniere e alla moglie, ormai niente gli dava più una vera gioia.

L’albero si rassegnò ad una vita triste.
Un giorno passarono di là una bambina con suo padre, lei si incuriosì dell’albero perché le metteva tanta tristezza e decise di aiutarlo. Cominciò a parlargli ogni giorno, lo abbracciava, lo baciava proprio come fosse un caro amico in difficoltà. La bambina aveva capito che l’albero era triste perché era cresciuto assecondando ciò che gli altri volevano per lui. Tale fu l’amore della ragazza che anche i giardinieri si convinsero a lasciare liberi i rami, potevano finalmente andare dove volevano e l’albero tornò a sorridere.





Bella storia, vero? La prof ci ha chiesto di fare un disegno e io ho fatto questo, ma non ho avuto il coraggio di spiegarlo.





Sì, tutti noi siamo alberi, ma la mia storia è diversa da quella dell’albero triste. La mia storia è fatta di esempi e di “Trova la tua strada e vai avanti”.
Mai un devi fare, ma sempre ragiona su quale sia la scelta giusta, quello che ti piace e quello che sarebbe utile fare … ho capito dopo tanto tempo che questi erano i consigli più utili del mondo, anche se all’inizio mi sconcertavano, mi facevano arrabbiare.
Ho imparato a scegliere, a decidere, anche se la fissazione dei ragionamenti non mi è mai passata raggiungendo forse il limite possibilmente accettabile per un cervello, un cervello che non si vuole perdere e poi rimane incastrato nei suoi infiniti labirinti. Son cresciuta stendendo, quando potevo, i rami verso il sole … anzi sono pure cresciuta storta e hanno cercato di raddrizzarmi (ma questa è un’altra storia). Ho cercato di svegliarmi sempre con il sorriso, impegnandomi a portarlo in giro anche nelle giornate buie. Non so se ho preso le decisioni giuste, quando ho raggiunto il mio ultimo traguardo ti avrei voluto lì con me, ma la forza è mancata. Non lo so, il tempo lo dirà, ma vorrei che i miei frutti fossero sempre sorridenti, come vorrei che il mio albero si scrollasse di dosso tutte le azioni negative compiute, tornasse a rifiorire, tornasse ad essere verde, a svegliarsi col sorriso.

Il sorriso se n’è andato via prima di te, una mattina di primavera, l’ho confidato a qualcuno ma sono stata derisa … da allora niente più, ho appeso il sorriso a quest’albero e non l’ho più indossato.

Grazie papà di avermi insegnato a scegliere.

Ciao


Cerco in tutti i modi di dire ti voglio bene alle persone a cui tengo, 
ma ora mi prendo una pausa perché sono stanca di schiaffi in faccia, 
auguro a tutti di avere tempo di dire le parole che non avete mai detto 
prima di pensare a cosa avreste potuto dire.




sabato 26 luglio 2014

Nessuna traccia



In tutta sincerità, mi sforzo di prendere la faccenda allegramente, anche se, a dispetto delle mie proteste, la maggior parte delle persone trova difficile credermi. Per favore, fidati di me. Posso davvero essere allegra. Posso essere amabile. Affettuosa. Affabile. E queste sono solo parole che cominciano per A. 

Non chiedermi però di essere bella: essere bella non è da me.

Markus Zusak, Storia di una ladra di libri





Montagne, castelli, 

parole, racconti, 

confidenze,

emozioni, affetto, legàmi

sangue, sorrisi,

lacrime, abbracci,

musica …

Niente di me,

il vuoto.

L’ho imparato.

Grazie.


Nessun ricordo

una stanca parete riposerà

un cassetto in più

una stanza vedrà il sole.

Niente tracce dietro me.

L’ho capito.

Grazie.



Orme in cui affondare la tua ignoranza,

sogni di gloria,

manie di protagonismo,

l’alchimia che sconfigge il dolore,

il silenzio,

Oblio dietro me.


Linea bianca su un foglio bianco,

punto nero che si perde nella notte.

Non fa la differenza.


Dimentica, è facile

cancella, è facile.


Vai lontano, meglio,

qui non si vende nulla.

Un mercante mi ha detto 

che nessuno mi comprerà 

se non per dispetto o malaugurio.

Per due soldi mi comprerà.

Per malaugurio, condanna, vendetta,

per rancore, rabbia, cattiveria.

Ma nessuno lo farà,

non lo permetterò,

qui non c’è più posto,

né doni per sorridere.


Guardo dietro, cado.

Ho capito,

niente posso lasciare

solo inutilità,

grazie.

L’ennesimo.





venerdì 25 luglio 2014

Il dolore fa paura



Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.

Oriana Fallaci




Il dolore, quello dentro, non si spegne facilmente né si dimentica. Spero di avere un cassetto dove riporlo o un armadio dove chiuderlo a chiave, ma sarà sempre parte di me. 

Ho provato a raccontarlo alla persona alla quale volevo più bene, ma non mi ha preso sul serio, chissà perché, da lì è partito un altro dolore, un lento addio. Perché ci dobbiamo vergognare del dolore? Perché dobbiamo costringere noi stessi a nasconderlo? Per sconfiggerlo, almeno per quel che si può, bisogna viverlo. Vi rendo tristi? Non mi importa, tu, che ti reputi mio amico dovresti ascoltarmi e non ridermi in faccia. Se per una volta ti dico sono triste voglio essere al centro del tuo mondo e non respirare un'aria di sfida. Non è facile dimenticare il dolore, non è facile parlare del dolore.








mercoledì 16 luglio 2014

Ricordo di un pomeriggio d'estate

Giochi di bambini risonano
come grida di gabbiani sul mare
mentre il mattino precipita troppo in fretta
verso il desiderio di refrigerio.
Di colpo il riposo sopisce le cose
le rende sole
un pesante silenzio cade su voci lontane.
Memoria di una casa tanto grande
dove la notte lotta col giorno
una ninna nanna si dondola in uno specchio
è un dolce sussurro nella stanza che riposa.
Una terrazza imbiancata dal sole
dolce sulla bellezza che rompe il deserto della trovata solitudine.
Profumo di piccoli colori.
Un occhio vispo sfuggito spia da dietro i vetri
storie immaginarie
aspetta domani
aspetta le grida sull'oceano
in un vuoto che sembra infinito
in un respiro che sembra sospeso.
Verrà l'inverno.





Sì, verrà l’inverno … anche se l’inverno sembra non aver fine. Guardo fuori e il cielo è scuro, lontano si sentono tuoni che sono quando non dovrebbero essere. Non ci sono più certezze. Fa freddo e questo inverno sembra non finire mai. Fuori e dentro.

Una stupida poesia, non so scrivere poesie, ma un pomeriggio di molto tempo fa, quando ancora l’estate faceva il suo dovere senza stupire, ho voluto catturare i miei ricordi per paura di dimenticare. Immagini confuse di una me bambina, il sole, i giochi, i miei disegni e la voglia di non riposare mai aspettando un nuovo giorno. Chi di voi in un caldo pomeriggio d’estate, fuggito da un letto troppo noioso, non ha mai spiato il mondo dalle fessure di una finestra socchiusa? Strisce di luce sul volto bambino e uno stupido sorriso di giochi indossato da sempre.

Avevo quattro anni e il mio papà mi regalò la mia prima chitarra per il mio compleanno … io sono nata d’estate, con il sole, in un giorno di festa.

Tante stagioni sono trascorse, ma forse l' estate di quello che sembra ancora ieri è ancora troppo vicina.

Non più occhi furbi, né regali a sorpresa, ma silenzio, sì … tanto silenzio, tutto quel maledetto silenzio.

Sono stati mesi di silenzio e solitudine, non ho potuto ascoltare la mia voce … non ho potuto fare la mia musica, non ho ascoltato parole di conforto, sì, quelle che avrei voluto si sono arrese di fronte al muro dell’incomprensione, nascoste da alibi fasulli. Forse non siamo tutti capaci di parole, certamente in pochi siamo capaci di trovarle dietro al silenzio ... e disprezziamo il silenzio che chiede solo un abbraccio.

Questo silenzio mi ha fatto impazzire, un buio nell’anima rotto solo da grida che mai scorderò, come non scorderò mai le parole che non ci sono state.

Caldo e silenzio. E' sceso il buio, ladro di strisce sul viso e di sorrisi indossati. Inverno dentro.

Mi giro e lei è ancora lì, provata da mille cadute bambine, fiera delle sue ferite ormai rimarginate … con qualche corda in meno, ma è lì. Io sono ancora qui, provata da mille cadute, impotente alle mille ferite, con un solo grande cuore, forse la corda mancante alla mia chitarra, un cuore grande costretto ancora a vivere l’inverno di un’estate che non arriva.


MADF

Luis Sepùlveda, Crediamo ancora nei sogni

Era il mio primo anno d'insegnamento, il mio primo incarico alle medie e mi era anche andata bene: la preside mi aveva assegnato una prima media a tempo prolungato ... benissimo come inizio. Un giorno spunta fuori una "giornata della lettura" e io, novellina, non sapevo di cosa si stesse parlando. Con il mio collega dell'altra prima decidemmo di organizzare insieme la giornata: ognuno di noi avrebbe letto ai ragazzi passi tratti dai nostri libri preferiti (si richiedeva anche una certa dote declamatoria...che prima di allora non sapevo di avere). Da musicista fui incaricata di scegliere anche un sottofondo musicale adatto per ogni lettura. La giornata fu un trionfo, i ragazzi soddisfatti, curiosi, attenti ... una bellissima esperienza.
Ancora vivo è in me il ricordo di quella giornata, quel giorno come quell'anno scoprii molte cose: quale insegnante volevo essere e cosa sapevo o non sapevo fare ... in quella scuola ho lasciato il mio cuore e ho conosciuto quella che considero e considererò sempre la mia migliore amica. 
Il passo che vi regalo fu il testo che lessi prima di introdurre la giornata, le parole scelte da me per iniziare quello che sarebbe stato un lungo viaggio tra i sogni e il tempo. Il passo è tratto da Il potere dei sogni ed è la parte iniziale di un discorso tenuto da Luis Sepùlveda il 16 aprile 2002 alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile.





Sono emozionato, e l’emozione è una congerie di sentimenti che sgorgano dai ricordi, e abbiamo ricordi perché abbiamo memoria. Ricordo che, quando ancora non avevo diciotto anni, camminavo per le strade intorno alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile con un enorme desiderio di entrare e di mettermi a leggere tutti quei libri che immaginavo accumulati sugli scaffali, libri che sentivo miei ma ai quali non avevo accesso, perché all’epoca un’odiosa direttiva burocratica impediva l’ingresso ai minorenni. Così la sede centrale della Biblioteca Nazionale era vietata ai più giovani, e dovevamo recarci in un edificio secondario, anche se non meno bello,in calle Companìa, vicinissimo a plaza Brasil.
All’epoca ero un ragazzo pieno di sogni, per questo militavo nella Juventudes Comunistas, perché la vicinanza di altri giovani sognatori moltiplicava i miei sogni. Alcuni erano sogni eroici, di lunga portata, altri erano minori, forse più domestici, più umili, più cileni.
In uno di questi dovevo procurarmi una copia della chiave di quel vecchio palazzone, della Sezione per ragazzi della Biblioteca Nazionale, in modo da entrare di nascosto e trascorrere un fine settimana senza altra compagnia che i libri.

Era un sogno borgesiano, nerudiano, rokhiano, a cui si univano poeti come Machado, Leòn Felipe, Garcìa Lorca, e gli scrittori che più leggevo, Coloane, Yankas (oggi non se lo ricorda più nessuno), Nicomedes Guzmàn, Baldomero Lillo, Juan Godoy, Sepùlveda Leyton e tanti altri da cui ho imparato che la patria è molto di più di una semplice bandiera.
In quegli anni felici, durante le lezioni di educazione civica, noi studenti visitavamo spesso il Congresso e la Camera dei Deputati. Là imparavamo come funzionava la nostra imperfetta ma esemplare democrazia, il potere legislativo si presentava come la colonna vertebrale del paese, e l’ardore dei discorsi pronunciati dai rappresentanti dei cittadini conferiva più forza ai nostri sogni. Visitavamo anche la Sezione per ragazzi della Biblioteca e, durante una di quelle gite, iniziò a prendere forma il più imperituro dei miei sogni.
Sognavo che tutti quei libri rinchiusi volevano parlare, che aspettavano il giusto interlocutore, e quello ero io. Sognavo che i libri mi parlavano con il loro linguaggio silenzioso, mi mostravano tutte le parole stampate sulle loro pagine, a una a una, ed esigevano da me una promessa: dovevo trasformarmi nel depositario, nel custode, nell’amoroso protettore delle parole. Allora io promettevo di vigilare che non perdessero mai il loro valore intrinseco, la loro capacità di dare un nome a tutte le cose e,a partire da questo, di farle esistere.

Non è facile veder realizzato un sogno, ma il mio, forse perché così ingenuo, così poco epico, così cileno, non incontrò grandi ostacoli. Un pomeriggio, grazie alle suggestioni del cinema, fregai alla bibliotecaria un mazzo di chiavi e, su uno stampo di cera, presi l’impronta di quelle che mi sembravano più importanti. Poi, rincorrendo alla collaborazione molto discreta di un amico che lavorava con il padre in un baracchino dove si facevano chiavi, all’ingresso del Portal Fernàndez Concha, ottenni una serie di copie che mi avrebbero aperto le porte della Biblioteca.
Ricordo, perché la mia testarda memoria di cileno non smette mai di ricordare, che un fine settimana comprai quello che mi sembrava il pranzo di fortuna degli scrittori: pane all’anice e latte. E’ bene dire che questa mia strana passione per il pane all’anice e il latte era condivisa da altri amici, il pittore Carlos Catasse, l’attore Jorge Guerra, l’indimenticabile “Selvaggio” Hugo Araya, e questo consente di dedurre che sono l’alimento base anche di pittori, attori e cineoperatori.
Quel fine settimana, provvisto di latte e pane all’anice – il migliore lo facevano nell’insuperabile panetteria La Selecta – aspettai nascosto in un cortile che il personale della Biblioteca si chiudesse alle spalle il portone principale e se ne andasse, e mi diressi verso l’ampia sala dove si allineavano scaffali e libri. Devo aggiungere che già mi avviavo a un destino di fumatore incallito e all’elenco dei generi di prima necessità si erano sommati due pacchetti di deliziose Liberty. Una delle chiavi aprì la serratura, così spinsi la porta ed entrai per la prima volta in quella che per me sarebbe stata, e ancora è, l’unica patria: la mia lingua e le sue parole. [...]




Io non so se credo ancora nei sogni ... forse non ne ho più