In me il tuo ricordo è
un fruscio
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai
sul vento,
ti perdi nella sera.
ti perdi nella sera.
Vittorio Sereni
da “Frontiera”,
Edizione di Corrente, Milano, 1941
Perché la cosa peggiore è non
appartenere.
Non appartenere più.
Caro e curioso lettore, scettico
nel tuo andare, che ti dondoli tra le mie parole riempiendo un momento di noia,
sì dico a te! tu da questo momento in poi puoi smettere di leggere, smettere di
chiederti se appartenere ti fa schifo, se ti evoca quell’insopportabile puzza
di muffa; appartenere per te fa rima con costringere, chiudere in una gabbia,
uccidere l’autonomia a colpi di richieste, soffocare l’autostima con attese di
conferme.
Sei andato via? Ora puoi sparlare
di me con i miei amici pazzi.
Non essere più ricordo, quel filo che invisibili mani
partoriscono dalle cose, dai momenti, dai luoghi, dai sorrisi.
Non essere un numero di telefono.
Non essere un buongiorno o una buonanotte.
Non essere il sorriso che nasconde pensieri condivisi.
Non essere una mano stretta per caso.
Non essere la sicurezza nell’incertezza.
Non essere il momento che sveglia il passato e lo stropiccia
come occhi appena svegli.
Non essere il luogo divenuto assenza.
Non essere la gioia condivisa.
Non essere il dolore che trova comprensione.
Non essere l’abbraccio improvviso e inatteso.
Non essere quarantasette sms.
Non essere più
niente.
Appartenere.
Non appartenere più.
Perché la cosa peggiore è non
appartenere.
Il filo sottile che tiene insieme due persone.
– Quale filo?
– Il filo di tutto quello che le tiene legate, anche quando sono lontane. Anche quando non si vedono e non si parlano.
…- Perché dici il filo?
– Perché è una cosa molto sottile e molto resistente, no? Che puoi anche non vedere, ed è estensibile quasi senza limiti attraverso la distanza e il tempo e l’affollamento delle altre persone che occupano lo spazio e lo attraversano in ogni direzione.
Però non è affatto scontato che ci sia, il filo.
– No?
– No. Magari due pensano di essere molto legati, poi appena provano ad allontanarsi scoprono che in realtà stanno benissimo ognuno per conto suo.
– E allora perchè pensavano di essere legati?
– Perchè erano tenuti insieme da una colla di pura abitudine e oggetti e luoghi condivisi e gesti stratificati. E’ una colla così forte da sembrare una saldatura permanente, ma appena uno dei due prova a staccarsi non c’è nessun filo che lo segua.
– Che triste.
– Sì. La maggior parte dei legami sono di questo genere, credo.
– Come fai a sapere che invece il filo c’è?
– Quando provi a romperlo, e ti trovi in caduta libera attraverso il senso delle cose.
– E di cosa è fatto, questo filo?
– Di uno scambio continuo di domande e risposte. Sguardi, anche solo immaginati. Assonanze e intuizioni e sorprese, curiosità reciproca che non si esaurisce. E similitudini, e differenze.
Andrea De Carlo, “Pura vita”