mercoledì 16 luglio 2014

Luis Sepùlveda, Crediamo ancora nei sogni

Era il mio primo anno d'insegnamento, il mio primo incarico alle medie e mi era anche andata bene: la preside mi aveva assegnato una prima media a tempo prolungato ... benissimo come inizio. Un giorno spunta fuori una "giornata della lettura" e io, novellina, non sapevo di cosa si stesse parlando. Con il mio collega dell'altra prima decidemmo di organizzare insieme la giornata: ognuno di noi avrebbe letto ai ragazzi passi tratti dai nostri libri preferiti (si richiedeva anche una certa dote declamatoria...che prima di allora non sapevo di avere). Da musicista fui incaricata di scegliere anche un sottofondo musicale adatto per ogni lettura. La giornata fu un trionfo, i ragazzi soddisfatti, curiosi, attenti ... una bellissima esperienza.
Ancora vivo è in me il ricordo di quella giornata, quel giorno come quell'anno scoprii molte cose: quale insegnante volevo essere e cosa sapevo o non sapevo fare ... in quella scuola ho lasciato il mio cuore e ho conosciuto quella che considero e considererò sempre la mia migliore amica. 
Il passo che vi regalo fu il testo che lessi prima di introdurre la giornata, le parole scelte da me per iniziare quello che sarebbe stato un lungo viaggio tra i sogni e il tempo. Il passo è tratto da Il potere dei sogni ed è la parte iniziale di un discorso tenuto da Luis Sepùlveda il 16 aprile 2002 alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile.





Sono emozionato, e l’emozione è una congerie di sentimenti che sgorgano dai ricordi, e abbiamo ricordi perché abbiamo memoria. Ricordo che, quando ancora non avevo diciotto anni, camminavo per le strade intorno alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile con un enorme desiderio di entrare e di mettermi a leggere tutti quei libri che immaginavo accumulati sugli scaffali, libri che sentivo miei ma ai quali non avevo accesso, perché all’epoca un’odiosa direttiva burocratica impediva l’ingresso ai minorenni. Così la sede centrale della Biblioteca Nazionale era vietata ai più giovani, e dovevamo recarci in un edificio secondario, anche se non meno bello,in calle Companìa, vicinissimo a plaza Brasil.
All’epoca ero un ragazzo pieno di sogni, per questo militavo nella Juventudes Comunistas, perché la vicinanza di altri giovani sognatori moltiplicava i miei sogni. Alcuni erano sogni eroici, di lunga portata, altri erano minori, forse più domestici, più umili, più cileni.
In uno di questi dovevo procurarmi una copia della chiave di quel vecchio palazzone, della Sezione per ragazzi della Biblioteca Nazionale, in modo da entrare di nascosto e trascorrere un fine settimana senza altra compagnia che i libri.

Era un sogno borgesiano, nerudiano, rokhiano, a cui si univano poeti come Machado, Leòn Felipe, Garcìa Lorca, e gli scrittori che più leggevo, Coloane, Yankas (oggi non se lo ricorda più nessuno), Nicomedes Guzmàn, Baldomero Lillo, Juan Godoy, Sepùlveda Leyton e tanti altri da cui ho imparato che la patria è molto di più di una semplice bandiera.
In quegli anni felici, durante le lezioni di educazione civica, noi studenti visitavamo spesso il Congresso e la Camera dei Deputati. Là imparavamo come funzionava la nostra imperfetta ma esemplare democrazia, il potere legislativo si presentava come la colonna vertebrale del paese, e l’ardore dei discorsi pronunciati dai rappresentanti dei cittadini conferiva più forza ai nostri sogni. Visitavamo anche la Sezione per ragazzi della Biblioteca e, durante una di quelle gite, iniziò a prendere forma il più imperituro dei miei sogni.
Sognavo che tutti quei libri rinchiusi volevano parlare, che aspettavano il giusto interlocutore, e quello ero io. Sognavo che i libri mi parlavano con il loro linguaggio silenzioso, mi mostravano tutte le parole stampate sulle loro pagine, a una a una, ed esigevano da me una promessa: dovevo trasformarmi nel depositario, nel custode, nell’amoroso protettore delle parole. Allora io promettevo di vigilare che non perdessero mai il loro valore intrinseco, la loro capacità di dare un nome a tutte le cose e,a partire da questo, di farle esistere.

Non è facile veder realizzato un sogno, ma il mio, forse perché così ingenuo, così poco epico, così cileno, non incontrò grandi ostacoli. Un pomeriggio, grazie alle suggestioni del cinema, fregai alla bibliotecaria un mazzo di chiavi e, su uno stampo di cera, presi l’impronta di quelle che mi sembravano più importanti. Poi, rincorrendo alla collaborazione molto discreta di un amico che lavorava con il padre in un baracchino dove si facevano chiavi, all’ingresso del Portal Fernàndez Concha, ottenni una serie di copie che mi avrebbero aperto le porte della Biblioteca.
Ricordo, perché la mia testarda memoria di cileno non smette mai di ricordare, che un fine settimana comprai quello che mi sembrava il pranzo di fortuna degli scrittori: pane all’anice e latte. E’ bene dire che questa mia strana passione per il pane all’anice e il latte era condivisa da altri amici, il pittore Carlos Catasse, l’attore Jorge Guerra, l’indimenticabile “Selvaggio” Hugo Araya, e questo consente di dedurre che sono l’alimento base anche di pittori, attori e cineoperatori.
Quel fine settimana, provvisto di latte e pane all’anice – il migliore lo facevano nell’insuperabile panetteria La Selecta – aspettai nascosto in un cortile che il personale della Biblioteca si chiudesse alle spalle il portone principale e se ne andasse, e mi diressi verso l’ampia sala dove si allineavano scaffali e libri. Devo aggiungere che già mi avviavo a un destino di fumatore incallito e all’elenco dei generi di prima necessità si erano sommati due pacchetti di deliziose Liberty. Una delle chiavi aprì la serratura, così spinsi la porta ed entrai per la prima volta in quella che per me sarebbe stata, e ancora è, l’unica patria: la mia lingua e le sue parole. [...]




Io non so se credo ancora nei sogni ... forse non ne ho più

Nessun commento:

Posta un commento