“Strada” parola che può avere tanti significati, andare avanti,
tornare indietro, scegliere, sbagliare, salire, scendere, perdersi,
cambiare … uno li accomuna tutti: camminare. Puoi anche fermarti a
riflettere, a riposare, ma finché c’è una via, un sentiero, un viottolo …
una strada dovrai muoverti. Sì, ma per andare dove? Nel libro di
McCarthy sembra ci sia una mèta, una mèta reale, ma solo all’inizio. Lo
scopo del cammino è un altro, è la strada e ciò che rappresenta: la
ricerca di speranze, di risposte, di conferme, di un “dove” che sia la
via verso un altro e diverso dove, un luogo dove l’orizzonte non sia una
linea di fine ma di confine, un luogo dentro l’anima, nel profondo
dell’uomo.
Due persone, un padre e un figlio, che camminano verso
la speranza attraverso un mondo ridotto in cenere; ridotti a lottare per
la sopravvivenza, a gioire per le cose più semplici, a fuggire i
cattivi, che ormai vagano ridotti alla pura bestialità, costretti spesso
all’egoismo, vanno sempre avanti cercando di non perdere le regole,
brandelli di quotidianità, i giochi, il piacere di un racconto prima di
dormire.
Una lunga ballata in bianco e nero, un mondo grigio dove i
colori vengono fuori solo dai sogni, dai ricordi, dai desideri. Il
ricordo appartiene a un padre ormai forte solo per il figlio, che vuole
tenere lontano dalla malvagità … invano, il sogno e il desiderio al
figlio, un figlio che spera di vedere il colore blu del mare, un bambino
coscienza puntuale e drammaticamente e puntualmente incisiva
dell’adulto … ormai alla deriva. Descrizioni, come lunghe strofe che narrano il mondo, le difficoltà, la realtà che i due cercano di far diventare l’altrove, dialoghi
come refrain veloci scambi di battute, non c’è bisogno di spiegare
quanto di confermare, che si concludono sempre in modo simile … fino a
che la ballata si conclude come inevitabilmente si deve chiudere, ormai
abbiamo capito che la strada se porterà in un “dove” a noi non
interessa, quel dove è la conferma della speranza, del calore del fuoco
che ognuno di noi ha dentro di sé. La strada porta alla scoperta che non
tutto è perduto finché esiste un briciolo di bontà, o chi ci crede.
Fra
echi di Ungaretti (“se solo il mio cuore fosse di pietra” dice il
protagonista proprio come il poeta nella poesia Sono una creatura) o
sguardi di Quasimodo (“Gente seduta sul marciapiede all’alba, mezzo
immolata e con i vestiti fumanti” per fare un esempio come in “All’ombra
dei salici” )altri due sono i testi ai quali ho pensato. La volontà di
non lasciarsi trascinare dalla bestialità, di recuperare-difendere
regole di vita, la scelta di isolarsi mi ha fatto pensare al Decameron
del Boccaccio, giovani in fuga dalla peste, ma soprattutto da un mondo
senza regole, che si isolano e si danno leggi per poter continuare a
vivere. Capisco che il paragone sia molto lontano nel tempo, ma chiaro
emerge l’uomo razionalizzante o meno che lotta contro il male, che cerca
risposte-soluzioni, che tenta di conservare se stesso e la sua
integrità, mi direte momentanee o magari drastiche, che però riescono a
farlo sopravvivere. Nel testo di McCarthy c’è però anche la costrizione
a volte a comportarsi come “i cattivi”, resta comunque il bambino,
coscienza buona a far riflettere chi si sta perdendo.
L’altro
testo che mi è venuto in mente è il romanzo di Daniel Defoe Robinson
Crusoe. Un naufrago che riesce a sopravvivere grazie alle sue abilità e
alla ragione e quindi a sfruttare e dominare la natura, testo
contestualizzato in un’ Inghilterra del 1700 in ascesa e molto distante
dal testo in questione, ma l’intraprendenza e il rapporto con la natura
sono gli stessi. Ne La strada ci sono tantissime e minuziosissime
descrizioni di azioni, espedienti … proprio come in Defoe, ma se in
questo il mondo offre, in McCarthy il mondo ha tolto e si è ribellato,
di conseguenza diventa più difficile sopravvivere e la ricerca viene
amplificata dalla grigia desolazione, da un paesaggio bruciato che non
dà più nulla a chi il fuoco lo porta dentro.
Mi è piaciuto questo
libro? Difficile da leggere e da comprendere, spero di aver colto una
minima parte del suo significato, anche se sono convinta che non importa
cogliere quello giusto, quello a cui l’autore aveva pensato. Una volta
ho partecipato a una conferenza di uno scrittore, un giornalista chiese:
“Ma lei per chi scrive, a chi pensa quando scrive?” (domanda
contestualizzata) e lui: “Penso solo a me stesso”. Sul momento la sua
risposta mi irritò, così egoista, ma poi, pensandoci, con il tempo, ho
dovuto riconoscere che solo così l’arte poteva essere tale. Usare
parole, pennelli, colori, note per dire ed esprimere qualcosa, e per
magia recepire tante cose diverse.
Questo è un libro per sentire
tante cose diverse, un libro che lascia spazio all’anima e alla mente di
poter recepire cose diverse.
31 agosto 2010
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