giovedì 28 marzo 2013

LA STRADA di Cormac McCarthy


“Strada” parola che può avere tanti significati, andare avanti, tornare indietro, scegliere, sbagliare, salire, scendere, perdersi, cambiare … uno li accomuna tutti: camminare. Puoi anche fermarti a riflettere, a riposare, ma finché c’è una via, un sentiero, un viottolo … una strada dovrai muoverti. Sì, ma per andare dove?  Nel libro di McCarthy sembra ci sia una mèta, una mèta reale, ma solo all’inizio. Lo scopo del cammino è un altro, è la strada e ciò che rappresenta: la ricerca di speranze, di risposte, di conferme, di un “dove” che sia la via verso un altro e diverso dove, un luogo dove l’orizzonte non sia una linea di fine ma di confine, un luogo dentro l’anima, nel profondo dell’uomo.
Due persone, un padre e un figlio, che camminano verso la speranza attraverso un mondo ridotto in cenere; ridotti a lottare per la sopravvivenza, a gioire per le cose più semplici, a fuggire i cattivi, che ormai vagano ridotti alla pura bestialità, costretti spesso all’egoismo, vanno sempre avanti cercando di non perdere le regole, brandelli di quotidianità, i giochi, il piacere di un racconto prima di dormire.
Una lunga ballata in bianco e nero, un mondo grigio dove i colori vengono fuori solo dai sogni, dai ricordi, dai desideri. Il ricordo appartiene a un padre ormai forte solo per il figlio, che vuole tenere lontano dalla malvagità … invano, il sogno e il desiderio al figlio, un figlio che spera di vedere il colore blu del mare, un bambino coscienza puntuale e drammaticamente e puntualmente incisiva dell’adulto … ormai alla deriva. Descrizioni, come lunghe strofe che narrano il mondo, le difficoltà, la realtà che i due cercano di far diventare l’altrove, dialoghi come refrain veloci scambi di battute, non c’è bisogno di spiegare quanto di confermare, che si concludono sempre in modo simile … fino a che la ballata si conclude come inevitabilmente si deve chiudere, ormai abbiamo capito che la strada se porterà in un “dove” a noi non interessa, quel dove è la conferma della speranza, del calore del fuoco che ognuno di noi ha dentro di sé. La strada porta alla scoperta che non tutto è perduto finché esiste un briciolo di bontà, o chi ci crede.
Fra echi di  Ungaretti (“se solo il mio cuore fosse di pietra” dice il protagonista proprio come il poeta nella poesia Sono una creatura) o sguardi di Quasimodo (“Gente seduta sul marciapiede all’alba, mezzo immolata e con i vestiti fumanti” per fare un esempio come in “All’ombra dei salici” )altri due sono i testi ai quali ho pensato. La volontà di non lasciarsi trascinare dalla bestialità, di recuperare-difendere regole di vita, la scelta di isolarsi mi ha fatto pensare al Decameron del Boccaccio, giovani in fuga dalla peste, ma soprattutto da un mondo senza regole, che si isolano e si danno leggi per poter continuare a vivere. Capisco che il paragone sia molto lontano nel tempo, ma chiaro emerge l’uomo razionalizzante o meno che lotta contro il male, che cerca risposte-soluzioni, che tenta di conservare se stesso e la sua integrità, mi direte momentanee o magari drastiche, che però riescono a farlo sopravvivere. Nel testo di McCarthy  c’è però anche la costrizione a volte a comportarsi come “i cattivi”, resta comunque il bambino, coscienza buona a far riflettere chi si sta perdendo.
L’altro testo che mi è venuto in mente è il romanzo di Daniel Defoe Robinson Crusoe. Un naufrago che riesce a sopravvivere grazie alle sue abilità e alla ragione e quindi a sfruttare e dominare la natura, testo contestualizzato in un’ Inghilterra del 1700 in ascesa e molto distante dal testo in questione, ma l’intraprendenza e il rapporto con la natura sono gli stessi. Ne La strada ci sono tantissime e minuziosissime descrizioni di azioni, espedienti … proprio come in Defoe, ma se in questo il mondo offre, in McCarthy il mondo ha tolto e si è ribellato,  di conseguenza diventa più difficile sopravvivere e la ricerca viene amplificata dalla grigia desolazione, da un paesaggio bruciato che non dà più nulla a chi il fuoco lo porta dentro.
Mi è piaciuto questo libro? Difficile da leggere e da comprendere, spero di aver colto una minima parte del suo significato, anche se sono convinta che non importa cogliere quello giusto, quello a cui l’autore aveva pensato. Una volta ho partecipato a una conferenza di uno scrittore, un giornalista chiese: “Ma lei per chi scrive, a chi pensa quando scrive?” (domanda contestualizzata) e lui: “Penso solo a me stesso”. Sul momento la sua risposta mi irritò, così egoista, ma poi, pensandoci, con il tempo, ho dovuto riconoscere che solo così l’arte poteva essere tale. Usare parole, pennelli, colori, note per dire ed esprimere qualcosa, e per magia recepire tante cose diverse.
Questo è un libro per sentire tante cose diverse, un libro che lascia spazio all’anima e alla mente di poter recepire cose diverse.

31 agosto 2010

Nessun commento:

Posta un commento